Santa Messa per canonici e vescovi defunti
Duomo di Pavia – domenica 8 novembre 2020
Carissimi fratelli e sorelle,
All’inizio del mese di novembre, dedicato alla preghiera per i nostri defunti, celebriamo questa Santa Messa in suffragio dei Vescovi di Pavia e dei Canonici della nostra Cattedrale defunti: li affidiamo alla misericordia del Padre e invochiamo per ciascuno di loro il premio riservato ai servi buoni e fedeli.
Siamo nelle ultime domeniche dell’anno liturgico e la Parola di Dio rivolge il nostro sguardo alle “cose ultime”, definitive, al traguardo della vita e della storia. Un tempo si parlava dei novisssimi, che appunto significano le realtà ultime, non tanto in senso temporale, ma in senso più radicale: le realtà che rappresentano il fine del nostro umano cammino, e che stabiliscono l’orizzonte di senso e la direzione che assumiamo ora, nella vita presente (morte – giudizio – inferno – paradiso).
Al di là di un linguaggio che chiede d’essere ripensato, resta sempre vero l’essenziale: la vita temporale ha tutt’altra impostazione secondo come noi pensiamo la fine e il fine del vivere. Se dopo l’esistenza terrena non c’è nulla, o se dopo c’è l’incontro con Dio Padre e con Cristo giudice e salvatore e si apre la prospettiva della vita eterna o della separazione eterna, se l’ultima parola è la risurrezione e non la morte, cambia tutto! Cambia il modo di concepire e di vivere il tempo che passa, il modo di valutare e di agire, cambia la percezione di sé e del mondo.
Nella seconda lettura di oggi, tratta dalla prima lettera di San Paolo ai Tessalonicési – uno degli scritti più antichi del Nuovo Testamento, che risale al 50/51 d. C. – l’apostolo vuole rispondere all’ansia dei membri della comunità che s’interrogavano sul destino dei loro defunti e sulla sorte di chi fosse stato ancora in vita al momento del ritorno del Signore. Nel testo si avverte la viva attesa che era presente nelle prime comunità, condivisa, almeno inizialmente anche da Paolo, che scrive probabilmente immaginando prossima la venuta di Cristo nella gloria. Solo lentamente, nella Chiesa delle origini, si farà strada la convinzione che in realtà il tempo dell’attesa sarà più lungo, prima che si realizzino alcune condizioni e segni indicati da Gesù stesso.
Comunque, ciò che decisivo, per i destinatari della lettera, come per noi, è sapere che all’orizzonte c’è questo evento, il mistero di una seconda e ultima venuta del Signore nella gloria che apre il cammino al vero “cielo” che consiste nella gioia dell’incontro e della comunione con Cristo risorto: «… e così per sempre saremo con il Signore» (1Ts 4,17).
Al di là del linguaggio tipicamente apocalittico, carico d’immagini che tentano di descrivere o d’evocare l’indicibile (la voce dell’arcangelo, il suono della tromba di Dio, la discesa dal cielo del Signore, il rapimento dei salvati sulle nubi), il cuore dell’annuncio e della speranza è che il nostro destino, oltre il tempo e la morte, è la vita, la vita per sempre con il Signore, per sempre!
Così, San Paolo richiama a tutti noi la radice della speranza: «Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti» (1Ts 4,13-14). Noi uomini mortali, lasciati a noi stessi siamo nell’ignoranza, non sappiamo, ignoriamo che cosa ci attende, brancoliamo come ciechi nella notte, e soprattutto ci chiediamo: ma che ne è dei nostri cari? Dove sono i nostri defunti? I vescovi e i canonici che hanno pregato e celebrato sotto le volte del nostro Duomo, che destino hanno?
Qui l’apostolo si fa voce della speranza affidabile che nasce dalla Pasqua di Cristo: solo Lui è risorto, nessun altro “grande” della storia, solo lui è il Vivente e in Lui abbiamo la promessa certa che anche noi risorgeremo, che i nostri morti già viventi in Dio parteciperanno alla pienezza della vita e della gloria con Gesù, morto e risorto.
Fede e speranza, fede e attesa vigilante del Signore, vanno insieme, si sostengono e s’intrecciano: senza fede, la speranza, «la grande speranza» (Benedetto XVI), non ha fondamento, ma senza speranza, senza un’attesa che vibra nel cuore e fa già pregustare la gioia dell’incontro, la fede diventa qualcosa d’inerte, di spento. È la speranza, la piccola bambina che tiene e trascina per mano la fede e la carità, secondo l’immagine del poeta francese Charles Peguy nella sua opera Il portico del mistero della seconda virtù, è la speranza la virtù, la forza per camminare, per attraversare anche le ore del buio o della prova: anche l’umanissima speranza che usciremo da questo tunnel del Covid 19, che anche questo momento è un passaggio, non è il definitivo!
Carissimi fratelli e sorelle, anche la parabola di Matteo ci parla della forza della speranza: le dieci vergini, giovani ragazze che attendono lo sposo, per accompagnarlo alla casa della sposa, sembrano assumere anche la figura della sposa. Essa non appare né è mai menzionata nel racconto: così le dieci vergini in attesa sono immagine della Chiesa, sposa di Cristo, che nel tempo, nelle fatiche della storia, attende lo sposo, uno sposo che tarda a venire. Nel testo evangelico, tutte e dieci, sia le cinque stolte che le cinque sagge, si addormentano, tutte cedono alla stanchezza: quando un’attesa si prolunga troppo, il cuore rischia di spegnersi, di rassegnarsi o di rinunciare.
A mezzanotte improvviso risuona un grido: «Ecco lo sposo! Andategli incontro!» (Mt 25,6). È rivolto a noi oggi: ecco lo sposo che viene! La vita è un andare incontro a lui, nella notte. È una parola che risveglia le giovani addormentate e subito, anche se è notte, anche se non vedono ancora lo sposo, si svegliano e preparano le loro lampade. Anche noi siamo raggiunti da una parola che ci risveglia: è la parola di Dio, è la parola del Vangelo e dei suoi testimoni. Anche se non vediamo ancora lo Sposo, nella fede ci ridestiamo e teniamo accese le lampade. La fede proprio la luce che ci permette di vegliare nel buio, è la lampada che illumina i passi del cammino.
La lampade di cui parla Matteo erano delle fiaccole imbevute d’olio e issate su pertiche, per fare luce, sempre accese e quindi bisognose ogni tanto di aggiungere olio: che cosa può rappresentare l’olio che possiedono le vergini sagge e che invece viene a mancare alle stolte? È un cuore che veglia, un’attesa che non viene meno neanche nel sonno: «Pur dormendo, le vergini sagge hanno nell’olio preparato un cuore che veglia» (L. Saraceno). È un cuore che attende e desidera, che non si rassegna perché sa che lo Sposo verrà. È la vigilanza sempre all’opera, è la speranza capace di sopportare e sostenere pazientemente l’attesa, è al fiducia che spera contro ogni speranza, nel buio della notte, spera anche se l’ora è ormai al limite dell’impossibilità.
In questo senso, l’olio che tiene accesa la lampada del cuore è al fede/speranza, la fede che spera e la speranza che crede, oltre ciò che appare.
Così, carissimi amici, possiamo comprendere perché le vergini sagge non vogliono e non possono dare del loro olio alle altre compagne: perché la fede/speranza nasce e fiorisce nella libertà della persona. Non posso credere, sperare, amare al posto di un altro! Posso vivere di questa fede/speranza, posso alimentarla nella comunità cristiana, nell’ascolto della Parola e nel dono dell’Eucaristia, posso testimoniarla, ma alla fine c’è un punto ultimo del cuore, dove ciascuno è libero, di fronte a Dio, di fronte a Cristo, di fronte allo Sposo. Libero di credere e di sperare!
I vescovi e canonici defunti, che ricordiamo in questa celebrazione, hanno servito la Chiesa, la nostra Chiesa di Pavia, con questa fede e con questa speranza: pur con le loro umane fragilità. Chiediamo al Signore che ora possano vedere il volto dello Sposo, atteso e amato, e che ottengano, con la loro preghiera, per noi, il dono di essere uomini e donne di fede e di speranza, soprattutto in questo tempo di prova, in questo passaggio che condividiamo come comunità in cammino verso l’incontro con il Signore che viene. Amen!