San Siro 2020

09-12-2020

Solennità di San Siro protovescovo e patrono della Città e della Diocesi

Duomo di Pavia – mercoledì 9 dicembre 2020

San Siro e il dono del pane per il nostro tempo

Cari confratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, cari diaconi,

cari consacrati e consacrate nel Signore,

Distinte Autorità civili e militari,

Stimati rappresentanti di associazioni e realtà sociali, presenti in questa città e in questa diocesi,

Carissimi fratelli e sorelle, membri e figli della Chiesa che è in Pavia,

Permettete che all’inizio della nostra celebrazione, saluti il vescovo di San Miniato Mons. Andrea Migliavacca, che proprio oggi ricorda il quinto anniversario della sua ordinazione avvenuta qui nel nostro Duomo il 9 dicembre 2015 e il vescovo emerito di Orvieto-Todi Mons. Giovanni Scanavino, padre agostiniano che è ritornato ad abitare nel convento presso San Pietro in Ciel d’Oro: li ringrazio di cuore della loro presenza e della loro amicizia fraterna.

La celebrazione del nostro patrono, San Siro, primo vescovo della Chiesa di Pavia, avviene nel clima di sobrietà e incertezza dell’Avvento di quest’anno: conosciamo le precauzioni e le limitazioni nella vita sociale imposte dalla necessità di ridurre l’epidemia in corso. L’emergenza sanitaria che si prolunga da mesi, sta purtroppo assumendo la forma di una vera e propria emergenza sociale e addirittura “spirituale”, com’è stato recentemente indicato dall’arcivescovo di Milano Mario Delpini.

Su questo sfondo complesso e nebuloso, acquista ancora più valore la celebrazione di questa sera, dove ci raccogliamo insieme, come comunità cristiana e civile di Pavia, intorno alla figura e alla memoria di San Siro, vescovo evangelizzatore, vissuto nel IV secolo, contemporaneo di Sant’Ambrogio. Sulla testimonianza e l’annuncio di Siro, che proveniva probabilmente dalla chiesa madre di Aquileia, si è edificata la Chiesa di Pavia e giustamente noi veneriamo e custodiamo con affetto l’arca con le sue spoglie, davanti alla quale innalzeremo la nostra preghiera di supplica e di affidamento al termine della Santa Messa.

Quest’anno vorrei dedicare la mia riflessione a un segno, da sempre legato al culto di San Siro: il segno del pane, perché se vogliamo affrontare con positività e con passione questo passaggio storico per il mondo, per l’Italia e per la nostra terra pavese, abbiamo bisogno di essere fortificati e nutriti da un pane sostanzioso e ricco.

È a tutti voi noto che nelle immagini tradizionali San Siro è rappresentato con il cesto posto ai suoi piedi, con i pani e i pesci, poiché l’antica leggenda lo identificava con il giovinetto che portò a Gesù i cinque pani e i due pesci, prodigiosamente moltiplicati per sfamare la folla. Nasce così l’associazione tra San Siro e il segno del pane, e sappiamo quanto sia carico di risonanze e di significati il pane nella cultura mediterranea e nella Bibbia: nell’Antico Testamento il pane è richiamato dal dono della manna, nel cammino d’Israele nel deserto, come un pane del cielo che discende da Dio; il pane è nutrimento fondamentale, spesso unito al vino che rallegra la mensa; il pane è evocato anche come simbolo della parola che viene da Dio e della sapienza che nutre i suoi figli. Nel Nuovo Testamento, il pane è moltiplicato ed elargito con abbondanza da Gesù, è invocato come dono di ogni giorno nella preghiera del Padre nostro, nell’ultima cena di Cristo con i suoi apostoli è condiviso come segno reale del suo corpo dato, insieme al vino che diventa segno del sangue versato per tutti, così diviene nella vita e nella fede della Chiesa il sacramento del corpo di Cristo, pane di vita che nutre i fedeli.

Credo profondamente che nei giorni che stiamo vivendo e nei mesi che ci attendono, abbiamo assolutamente bisogno di un pane buono, che raccoglie in sé almeno tre grandi significati: il pane della giustizia e della carità, il pane dell’educazione e della cultura, il pane di Dio.

Tutti, secondo la condizione di ciascuno, possiamo e dobbiamo essere di volta in volta coloro che donano e condividono, o coloro che ricevono e si nutrono, tessendo con pazienza e con dedizione una rete di rapporti buoni che sono la ricchezza e la forza di un popolo, di una città, di una società umana, e che permettono di vivere anche una situazione di fatica e di prova con intelligenza, con amore creativo, con la capacità di trasformare in bene anche esperienze negative.

La storia insegna: spesso, dopo grandi crisi, si sono risvegliate energie di bene, e si sono realizzate profonde rinascite, a livello sociale, culturale e spirituale, perché l’uomo è un soggetto unitario, e se si sviluppa solo sotto un aspetto, assume un volto ridotto e contratto e rischia di creare una civiltà altamente specializzata in certi settori, e poverissima in altri, come oggi.

Pensiamo soltanto che cosa fu la rinascita nell’Europa cristiana, nei secoli dopo il Mille, seguita a un periodo oscuro e travagliato, o, dopo il terribile flagello della “peste nera” nel Trecento, al nostro umanesimo, sbocciato poi nel Rinascimento; per venire vicino a noi, pensiamo agli anni della ricostruzione e della crescita del progetto di un Europa unita, dopo le tragiche esperienze delle due guerre mondiali, con il loro strascico di morte, di distruzione, di annichilimento dello spirito europeo moderno e liberale.

Se l’uomo riprende a respirare e a costruire, a progettare e a generare, ciò avviene nelle dimensioni costitutive dell’umano, e così lo stesso homo faber diventa soggetto creativo e geniale nella cultura, nell’avventura della conoscenza e della scienza, ma anche nel campo morale, spirituale e religioso. Lo stiamo toccando con mano in questi mesi: se ovviamente è fondamentale l’impegno sanitario per curare, prevenire e guarire, ci sono anche altre dimensioni dell’esperienza umana che vanno custodite e promosse, per la stessa sanità psico-fisica della persona, come la dimensione sociale e relazionale, quella economica e lavorativa, quella dell’arte e della cultura, quella dello spirito e della fede.

Innanzitutto, ora e nell’immediato futuro ancora incerto, non deve mancare il pane della giustizia e della carità: è sotto gli occhi di tutti, l’impoverimento crescente di tante famiglie, e in questi mesi, lo sa bene chi opera nel campo della carità e dell’assistenza sociale, sia gli enti amministrativi, che le varie espressioni del volontariato ecclesiale, come la Caritas, e civile-laico. Purtroppo anche in Italia sta aumentando il fossato che divide i “ricchi” sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con una lenta erosione del ceto medio, che ha sempre beneficiato di una distribuzione più equa del reddito e del benessere, tipica di un capitalismo più attento alla dimensione sociale e personalista. Ci sono grandi depositi bancari inutilizzati, anche a Pavia, e chi si trova a possedere maggiori risorse e ad amministrare patrimoni più ingenti, frutto d’impegno e di capacità qualificate, dovrebbe sentire una responsabilità più grande verso chi è svantaggiato o sempre più ai margini. Ricordo che nella dottrina sociale della Chiesa, se è riconosciuto il diritto alla proprietà privata e non è demonizzata in sé la ricchezza, è vero che c’è una sorta d’ipoteca sociale sui beni privati, perché la stessa proprietà privata è subordinata alla destinazione comune dei beni, tanto che condividere parte dei propri patrimoni, utilizzarli in ambito anche sociale e filantropico, per promuovere un lavoro giusto e dignitoso e per concorrere con il soggetto pubblico a rispondere ai bisogni più immediati (pane, casa e lavoro), è questione di giustizia, non di carità!

Sotto questo profilo, il pensiero di Papa Francesco, equivocato e mal compreso, non ha niente da spartire con il collettivismo marxista e comunista e appartiene alla tradizione della Chiesa, all’insegnamento dei Padri, fin dai primi secoli.

Carissimi fratelli e sorelle, tutti noi, secondo le possibilità che abbiamo, i compiti e le posizioni che rivestiamo, ascoltiamo davvero il grido, spesso silenzioso, che sale anche nella nostra città e nel nostro territorio: quante famiglie oggi vivono in gravi ristrettezze economiche, quante disparità sociali anche gravi, quanti uomini e donne che hanno perso il lavoro o le risorse essenziali per vivere, il pane quotidiano sulla mensa, e magari si vergognano di chiedere! Quante attività e imprese hanno già chiuso o rischiano di non aprire più, aumentando il numero dei disoccupati e deprimendo la crescita economica del nostro territorio, già affaticato! Quante persone anziane che sperimentano in modo doppiamente drammatico il distanziamento fisico di questi mesi, nelle loro case, nelle strutture di accoglienza e di cura, perché alla solitudine che già vivono per il diradarsi delle relazioni e la lontananza dei famigliari si aggiunge l’isolamento forzato cui la pandemia li obbliga. C’è poi una povertà che non è solo economica, ma è anche povertà di relazioni, di affetti sfigurati da violenze, di cui sono vittime soprattutto le donne e di conseguenza i bambini, povertà di prospettive per ragazzi e giovani lasciati a se stessi, per soggetti più fragili.

Accogliamo questo grido, operiamo, anche in rete, per fare ciò che possiamo, diventando creativi nelle iniziative e nei gesti, per non far mancare il pane che ridà dignità e speranza alle persone ferite dalla vita. Mettiamoci in ascolto di ciò il Papa indica, nella sua ultima enciclica Fratelli tutti, come strada da percorrere per non sprecare questa crisi, per uscirne migliori: impariamo di nuovo a riconoscerci “fratelli tutti”, partecipi della stessa umanità, figli dello stesso Padre!

Ovviamente ci sono responsabilità specifiche su piani d’intervento differenti, e sono chiamati in causa soggetti diversi: lo Stato, la Regione, la Provincia, le amministrazioni comunali, le associazioni, le imprese, le banche e le fondazioni, le comunità cristiane, i privati. Ci sono poi azioni possibili a tutti, nella condivisione semplice dei bisogni, nello sguardo attento a chi è vicino, nella disponibilità a rendersi attivi nel volontariato, nell’offerta di risorse proprie, sapendo rinunciare a qualcosa di nostro a favore di chi ha poco o non ha nulla.

Insieme al pane della giustizia e della carità, per vivere da uomini, abbiamo bisogno anche del pane dell’educazione e della cultura: non siamo chiamati semplicemente a preservare l’esistenza finché è possibile e nelle migliori condizioni di benessere. Nell’esperienza della pandemia in corso, soprattutto nel mondo occidentale, più ricco e sviluppato, si è resa evidente la debolezza di una posizione esistenziale che, non riconoscendo più un significato trascendente e una destinazione superiore all’esistenza, fa coincidere il senso della vita nella sua conservazione e nell’assicurazione di beni come la salute, il lavoro, la vacanza e il divertimento, la sicurezza sociale, l’esercizio dei diritti individuali. Da qui discende un certo modo un po’ ossessivo e paranoico di affrontare la questione del Covid-19 che rischia di diventare l’orizzonte totale della vita, e da qui deriva la cappa di paura e d’insicurezza che respiriamo: come se la morte, la malattia, la sofferenza non facessero parte dell’esperienza umana, e pertanto non devono esserci, non c’è posto per loro nella nostra concezione di vita, sono il “non-senso” e il male assoluto.

Con questo, non voglio in alcun modo, svalutare o mettere in secondo piano l’opera dei medici e degli infermieri, che va riconosciuta e onorata; anzi è un segno preoccupante vedere come si sia raffreddato il clima caldo di vicinanza agli operatori della sanità che invece aveva accompagnato la prima ondata di primavera. La loro dedizione e la loro fatica nei centri di cura e di ricerca che fanno di Pavia una città della salute, chiedono di essere sostenute e stimate da tutti noi.

Nondimeno, se la salute è un bene essenziale, non è sufficiente per una vita pienamente umana: si può essere sani e interiormente vuoti, in buona salute e senza prospettive di vita e di significato!

Una concezione della vita e del destino dell’uomo che non abbia da dire nulla sul dolore, sulla morte e sulla finitezza dell’essere umano, se non prospettare il sogno di un’esistenza finalmente senza malattie, che possa proseguire come un’eterna giovinezza e che giunga a superare anche l’estremo limite della morte, come in certe correnti del post-umanesimo e del trans-umanesimo, è una visione senza respiro, incapace d’ospitare l’intera esperienza dell’uomo: in questo campo occorre favorire e far crescere una buona alleanza tra umanesimo secolare e laico, e umanesimo religioso e cristiano, soprattutto qui a Pavia, città universitaria e creatrice di cultura e di bellezza, di scienza e di arte.

Per questo motivo, accanto al pane della mensa, occorre che non manchi il pane dell’educazione e della cultura che permette la coltivazione piena dell’umano e apre il cuore agli orizzonti ampi della realtà, della verità, della bellezza e del bene morale. In questa prospettiva, devono trovare ascolto le voci differenti che esprimono preoccupazioni e riserve sul ricorso prolungato alla “didattica a distanza. I nostri bambini, ragazzi e giovani devono tornare, in sicurezza nelle aule delle scuole e delle università, senza cadere in un’ossessiva paura dei contagi, per vivere l’esperienza insostituibile del rapporto diretto con i docenti e tra loro. Non mancano gravi danni, a livello psicologico, relazionale e educativo, che la sospensione delle lezioni in presenza comporta e i limiti oggettivi della “didattica a distanza” che, di fatto, per non pochi studenti risulta assai difficile da svolgere, per le condizioni sociali e familiari, e che crea fatiche crescenti nell’attenzione e nell’apprendimento. Come società, come Chiesa, come responsabili del bene pubblico, come uomini di cultura e di pensiero, non possiamo rassegnarci a una generazione abbandonata a se stessa, e accontentarci delle pur lodevoli iniziative d’incontri e di formazione per via telematica. L’educazione e la formazione, anche nell’ambito della comunità cristiana, chiedono un rapporto tra persone, tra volti, e lo stesso processo conoscitivo, per noi esseri umani, ha una componente affettiva ed emozionale: non siamo robot e non viviamo d’algoritmi.

Infine, il cuore dell’uomo ha bisogno anche di un altro pane: il pane di Dio, della sua parola, della sua sapienza. L’esistenza umana chiede un significato, che renda ragionevole e umano vivere: non ci basta conservare e consumare la vita, a differenza degli animali siamo esseri “squilibrati”, non ci ritroviamo nella pura ripetizione dell’istinto e della necessità.

Senza un’ipotesi di senso, noi non viviamo, sopravviviamo. Ora, carissimi fratelli e sorelle, l’esperienza di questi mesi, non ancora conclusa, con il suo carico di sofferenza, di lutti, di solitudine, rimette in campo, in modo vivo, le grandi domande sul senso del dolore, della vita e della morte, sulla possibilità di una speranza che regga anche nelle ore più oscure. Proprio la realtà, vissuta con la sua intensa bellezza e drammaticità, ridesta il senso di un mistero che ci trascende, l’intuizione e il riconoscimento, almeno come possibilità e come apertura dell’essere, di Dio, quale orizzonte ultimo e significato esauriente dell’esistenza. Censurare l’ampiezza di questa apertura, soffocare le domande ultime, come domande senza senso e senza approdo, è la morte dell’uomo.

Come cristiani, come Chiesa di Pavia, sentiamo di avere qualcosa di prezioso da offrire che possa sciogliere l’enigma oscuro della vita e della morte, in un mistero oltre le nostre misure e la nostra comprensione, eppure profondamente umano e pacificante. Nella libertà e nel rispetto profondo del cammino di ogni persona, vorremmo testimoniare a tutti la speranza e la luce che provengono da Cristo e dal suo Vangelo. Permettete che vi legga un passo della costituzione Gaudium et spes, del Concilio Vaticano II, dedicata alla missione della Chiesa nel mondo contemporaneo; un testo scritto ormai 55 anni fa, in un contesto molto diverso dall’attuale, eppure ancora ricco di parole vere: «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine. L’uomo non è tormentato solo dalla sofferenza e dalla decadenza progressiva del corpo, ma anche, ed anzi, più ancora, dal timore di una distruzione definitiva. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore. … la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di una comunione nel Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, dandoci la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio» (Gaudium et spes, 18).

Così il pane di San Siro rimanda, in definitiva, al pane della Parola di Dio e del Vangelo di Gesù, e insieme al pane eucaristico, dono del corpo di Cristo che si fa nutrimento nel cammino della vita. Celebrare l’Eucaristia, ascoltare insieme la Parola di Dio, ritrovarci intorno alla stessa mensa, è attingere alle fonti della speranza che non delude, è incontrare la presenza viva del Risorto, che ci assicura un destino buono di vita e di risurrezione, oltre la soglia della morte e del tempo. Amen!