carissime religiose e consacrate, carissimi fedeli,
all’inizio di questa Solenne Concelebrazione che vede raccolto tutto il presbiterio della nostra Diocesi, permettete che il mio saluto vada al caro vescovo Mons. Giovanni Giudici, che per tanti anni ha presieduto la Messa Crismale, come pastore sulla cattedra di San Siro e mio predecessore: lo ringrazio della sua presenza e della sua fraterna amicizia. Spiritualmente è unito con noi anche Mons. Andrea Migliavacca, vescovo di San Miniato, il “nostro” don Andrea, che tra l’altro quest’anno celebra il 25° anniversario di sacerdozio. In questa Eucaristia, che ben rappresenta l’intera comunità diocesana – vescovo, sacerdoti e diaconi, consacrati e fedeli laici – eleviamo una preghiera di ringraziamento al Padre per i nostri confratelli che nel corso di quest’anno celebrano Giubilei di ordinazione: oltre a Mons. Andrea Migliavacca, ricordano il loro 25° di sacerdozio don Franco Tassone e don Massimo Mostioli, il loro 50° Don Mansueto Fasani e padre Giampiero Bruni del PIME, e il suo 60° il Canonico Don Ernesto Bottoni.
A voi, carissimi festeggiati, ci stringiamo con affetto e gratitudine, e invochiamo abbondanti benedizioni dal Signore, perché renda sempre fecondo il vostro ministero per la sua Chiesa!
In questa Messa, durante la quale saranno benedetti gli Olei dei catecumeni e degli infermi, e sarà consacrato il Santo Crisma, sarebbe riduttivo considerare solo il dono del sacerdozio ministeriale, di cui noi, vescovi e presbiteri, siamo stati resi partecipi attraverso il sacramento dell’Ordine, nei suoi distinti gradi. In realtà la Chiesa, benedicendo i santi Olei, che sono impiegati nella celebrazione dei sacramenti (battesimo, cresima, ordine, unzione degli infermi), esprime a Dio una preghiera di lode e di ringraziamento per il dono della dignità sacerdotale, che segna tutto il popolo cristiano: infatti, tutti i fedeli, in forza del Battesimo e della Cresima, sono stati consacrati per esercitare un sacerdozio santo, che si realizza non solo nella partecipazione attiva e fedele alla liturgia e alla preghiera della Chiesa, ma soprattutto nell’offerta della vita quotidiana, nella testimonianza della fede e della carità, nel fare della propria esistenza un vivente sacrificio di lode per la gloria di Dio.
La parola del profeta, ascoltata nella prima lettura, annuncia già a Israele, tornato dall’esilio e impegnato a ricostruire la vita religiosa e sociale, il dono di questa consacrazione, che conferisce dignità e grandezza a ogni membro del popolo: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti» (Is 61,6).
Allo stesso modo, l’autore dell’Apocalisse, nella dossologia iniziale, proposta nella seconda lettura, dà voce a questa consapevolezza profonda, che ha da sempre caratterizzato la comunità credente nel Signore Gesù: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Ap 1,5-6).
Sì, carissimi fratelli e sorelle, esiste un sacerdozio regale e comune, radicato nel battesimo, che siamo chiamati a riscoprire, in forza del quale tutti siamo protagonisti nella vita della Chiesa, partecipi della dignità sacerdotale, profetica e regale di Cristo: sacerdoti, in quanto consacrati, santificati dallo Spirito e chiamati a trasformare l’esistenza e la storia in offerta viva al Padre; profeti, in quanto inviati a dare testimonianza del Vangelo, in parole e in opere; re, in quanto discepoli di quel Re che regna servendo, amando, fino al dono totale di sé sulla croce!
Ora il sacerdozio dei presbiteri, pur differendo di essenza e non solo di grado da quello comune (cfr. Lumen Gentium, 10), s’innesta ovviamente sul sacerdozio battesimale ed è chiamato ministeriale, perché è a servizio del popolo cristiano: noi presbiteri siamo stati consacrati e inviati per servire la vita dei nostri fedeli, per aiutare i membri delle nostre comunità a vivere la loro vocazione di battezzati, la loro dignità sacerdotale, profetica e regale. Non siamo sacerdoti per noi stessi e non siamo sacerdoti da noi stessi! Viviamo di un dono ricevuto – il sacramento dell’Ordine che ora agisce in noi – e viviamo per essere dono nella Chiesa: proprio in questo dono, accolto e vissuto, troviamo la nostra gioia, la nostra identità, la ragione e la bellezza della nostra vita.
Permettete, allora, carissimi fedeli, che in questa solenne concelebrazione, io rivolga una parola particolare al mio presbiterio, a coloro che sono i miei primi collaboratori nella vigna del Signore: dopo più di un anno di ministero, come vescovo della Chiesa che è in Pavia, vi rinnovo, carissimi amici e confratelli, il mio “grazie” per quello che siete, per quello che fate, per le fatiche che vi assumete nel quotidiano servizio, grazie anche per la fraternità che sento crescere con voi, pur con i nostri limiti. Ringrazio di cuore il Signore perché sto imparando a conoscervi e ad amarvi, e mi sento davvero bene con voi, e in questo momento, mi pare giusto chiedervi anche perdono, se nei confronti di qualcuno avessi mancato di attenzione e di ascolto.
Vorrei offrirvi una breve riflessione su un aspetto della nostra vita, che in realtà coinvolge ogni discepolo del Signore, ed è la nostra chiamata a essere evangelizzatori nell’oggi, ma evangelizzatori che, pur tra le prove e le fatiche, non perdono la gioia del Vangelo.
Nel testo d’Isaia, che Gesù legge nella sinagoga di Nazaret, si afferma la missione per un annuncio di gioia, buono e bello, che sia davvero un “evangelo” per i poveri: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione … a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).Se andiamo direttamente al passo d’Isaia, la tonalità di gioia, nel compito affidato al profeta, è espressa ancora di più con altre immagini: « … dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto» (Is 61,3).
Gesù, in effetti, con il suo annuncio del Regno ormai prossimo, con i suoi gesti di misericordia, con i suoi miracoli e le sue guarigioni, porta agli afflitti la gioia, rivela il volto di un Dio amico degli uomini, mostra già i segni di una vittoria contro il Maligno, contro il male e la morte, una vittoria che si realizza in pienezza nella sua Pasqua di morte e di risurrezione.
Perciò, carissimi amici, incontrare Cristo oggi, essere toccati e conquistati dalla bellezza del suo volto, essere chiamati a seguirlo, con tutta la nostra vita, in una dedizione completa al Vangelo e alla Chiesa, è sorgente di gioia, e fa parte di questa gioia cristiana spendere la propria esistenza nell’annuncio del Vangelo, nell’edificazione paziente delle comunità affidate, dentro le concrete circostanze in cui il Padre ci chiama a vivere.
Non siamo degli ingenui sognatori: ben sappiamo che il nostro tempo non è un tempo facile per la fede, ed è inutile stare a rimpiangere epoche passate, che magari, nel ricordo, tendiamo un po’ a idealizzare, dimenticando, insieme a tante ricchezze, anche ombre e limiti che, con forme e misure differenti, hanno sempre accompagnato la vita delle nostre comunità. Non è mai esistita un’età dell’oro per la fede e per l’essere prete! In questo senso sono sempre errati e miopi gli opposti atteggiamenti di chi denigra tutto il passato, come se la Chiesa fosse nata solo dopo il Concilio, e di chi si arrocca nel passato, facendo della tradizione qualcosa d’inerte, senza vita. Resta però vero che noi corriamo oggi il rischio di una certa “rassegnazione” o stanchezza, di fronte alle difficoltà, alle “reti vuote”, all’apparente irrilevanza della fede nella nostra società, e ho trovato davvero una feconda indicazione di cammino in ciò che Papa Francesco ha detto ai preti, nell’incontro nel duomo di Milano, durante il recente viaggio. Anche se il Santo Padre si è limitato a visitare la terra ambrosiana, idealmente voleva rivolgersi a tutte le terre lombarde e la situazione sociale e religiosa delle Chiese in Lombardia presenta ovviamente molti tratti comuni.
Proprio nella risposta alla prima domanda, a lui indirizzata da un presbitero, Francesco ha parlato di questo pericolo che può segnare la nostra vita: «Un’altra cosa che tu hai detto, quella preoccupazione che hai espresso che è la preoccupazione di tutti voi: non perdere la gioia di evangelizzare. Perché evangelizzare è una gioia. Il grande Paolo VI, nella Evangelii nuntiandi – che è il più grande documento pastorale del dopo-Concilio, che ancora oggi ha attualità – parlava di questa gioia: la gioia della Chiesa è evangelizzare. E noi dobbiamo chiedere la grazia di non perderla. Lui [Paolo VI] ci dice, quasi alla fine [di quel documento]: Conserviamo questa gioia di evangelizzare; non come evangelizzatori tristi, annoiati, questo non va; un evangelizzatore triste è uno che non è convinto che Gesù è gioia, che Gesù ti porta la gioia, e quando ti chiama, ti cambia la vita e ti dà la gioia, e ti invia nella gioia, anche in croce, ma nella gioia, per evangelizzare».
Provando ad accogliere questa provocazione del Papa, ci possiamo chiedere da dove nasce questa gioia di evangelizzare, d’essere evangelizzatori nella nostra vita, nel nostro ministero e come custodire e alimentare questa gioia.
Se guardiamo all’esperienza dei primi evangelizzatori – gli apostoli – dei grandi amici e testimoni di Cristo – i santi, in particolari i santi pastori e missionari – se riflettiamo anche al nostro cammino, possiamo rispondere a queste domande e ritrovare, sempre di nuovo, il segreto di questa gioia che, alla fine, genera vita, secondo modi e tempi che non sono nostri, ma sono di Dio. Perché non dimentichiamo mai che chi evangelizza non sempre vedrà i frutti della sua fatica, e soprattutto la fecondità della nostra opera non è un fatto “numerico”, non sempre siamo chiamati a prendere i pesci nella rete. Così come ricordava ancora il Papa in quella risposta: «Tu sai che l’evangelizzazione non sempre è sinonimo di “prendere i pesci”: è andare, prendere il largo, dare testimonianza… e poi il Signore, Lui “prende i pesci”. Quando, come e dove, noi non lo sappiamo. E questo è molto importante. E anche partire da quella realtà, che noi siamo strumenti, strumenti inutili».
Da dove nasce la gioia del Vangelo, che dovrebbe segnare e pervadere la vita di ogni cristiano e, ancor più, di un prete, di un uomo che sta giocando tutta la sua esistenza per servire Dio e i fratelli? Essere apostolo, essere evangelizzatore significa essere un uomo che è stato preso da un grande amore, che è stato come requisito da Cristo, conquistato e afferrato dall’attrattiva discreta e potente di una presenza inconfondibile, che non ha paragoni con niente.
Siamo preti, amici carissimi, siamo operai del Vangelo nelle nostre comunità, così come sono e così come desideriamo che siano, innanzitutto perché ciò che è accaduto a Simone e ad Andrea, a Giacomo e a Giovanni, a Paolo, è accaduto anche a noi. Secondo modi, tempi, circostanze differenti per ciascuno di noi, Gesù il Vivente ci ha preso il cuore, ci ha legati a sé, ci ha introdotti in un’amicizia potente, che dà respiro e letizia alla vita. E la sua chiamata non è qualcosa di passato – quando è nata in noi la “vocazione” – ma è qualcosa di presente: siamo qui perché Cristo ora ci sta chiamando a essere suoi, a vivere di lui e per lui, a consumare la nostra esistenza per qualcosa di grande, che è il suo Regno, il suo Vangelo, l’edificazione del suo popolo nel mondo.
Allora, come spesso ama dire il Papa, echeggiando l’espressione dell’Apocalisse, nella lettera alla chiesa di Efeso (Ap 2,4: «Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore»), occorre tornare ogni giorno “al primo amore”, domandare allo Spirito che, con il passare del tempo, non invecchi, non si offuschi, non sia inquinato o deturpato da altri “amori”. Occorre immedesimarci in ciò che racconta Luca, quando parla del ritorno dei settantadue discepoli, mandati da Gesù in missione nei villaggi (Lc 10,17-20): tornano tutti entusiasti di quello che vedono accadere, degli esorcismi e delle guarigioni che compiono nel nome di Gesù, e il Signore, con infinita tenerezza, li invita a non gioire di questi “successi”, perché possono passare, perché non sta lì la vera gioia, ma a essere lieti per qualcosa d’altro, molto più grande: «Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20). Qui sta la gioia, che i nostri nomi sono scritti nei cieli, il mistero racchiuso nella vita di ognuno di noi è custodito nel cuore stesso di Dio, e il Signore ci ama e ci stima a tal punto da renderci suoi collaboratori, servi del suo Regno, amici che sono mandati a preparargli le strade nei cuori degli uomini e delle donne che incontriamo e avviciniamo nel nostro ministero.
Come custodire il “primo amore”? Come non perdere la gioia d’essere operai del Signore, nella sua vigna, sia quando godiamo il dono di vedere frutti belli che crescono tra noi, sia quando soffriamo per l’indifferenza di molti, per la fatica a trovare strade adatte per entrare in rapporto, in sintonia con i nostri fratelli uomini, con gli adolescenti e i giovani che sembrano vivere in un loro mondo, con tante famiglie ferite o lontane dalla fede?
Occorre, carissimi confratelli, essere umili, essere disponibili a lasciarci continuamente rigenerare da Cristo, dando cura e rilievo ai fattori essenziali della nostra vita sacerdotale: mi permetto di accennarli, senza nessuna pretesa di darvi una sorta di “ricetta”.
• La prima realtà costitutiva è la relazione personale con il Signore, nutrita dalla preghiera del breviario, alimento orante delle nostre giornate, dall’ascolto quotidiano della Parola di Dio, nella meditazione o nella lectio divina, dall’Eucaristia, celebrata e adorata, circondata di stupore e di silenzio – quanto abbiamo bisogno di educare la nostra gente al silenzio e all’adorazione, per non cadere in celebrazioni chiassose e talvolta sciatte: ognuno poi può amare e praticare altre forme di preghiera, riconoscendo un posto singolare all’affidamento a Maria e all’autentica devozione ai Santi, primi amici e compagni di strada.
• Un secondo aspetto che caratterizza la vita di un prete sono le fatiche e le incombenze del ministero, da vivere non come peso o come impiego da funzionari, ma come una risorsa e una grazia: quante volte l’essere “costretti” a fare qualcosa per la nostra gente ci tira fuori da pigrizie e stanchezze che portano a chiuderci nelle nostre cose, e quante volte incontri, testimonianze di fede, ascolti che viviamo, ci ridestano, ci fanno toccare con mano il Signore all’opera, anche oggi.
• Infine la fraternità vissuta sia tra noi presbiteri, anche con il vostro vescovo, sia con fedeli laici, che diventano amici e testimoni per la nostra vita, è una grande possibilità per ravvivare la nostra vocazione: perdere del tempo per incontrarci tra preti, coltivare dei rapporti di vera amicizia con qualche confratello, a cui poter aprire il cuore, nei momenti belli o in quelli di prova, di tentazione, intessere delle amicizie sane con fedeli delle nostre comunità, con famiglie con le quali viviamo un cammino di fede, rapporti gratuiti che non siano solo per una collaborazione o un servizio in parrocchia, ma un bene prezioso per la vita, tutto ciò è una ricchezza affidata alla nostra libertà, alla nostra cura.
Carissimi confratelli, concludo queste mie riflessioni, che condivido con voi in questa celebrazione, nella quale, tra poco, rinnoveremo le promesse della nostra ordinazione, con le parole del Beato Paolo VI, quasi alla fine dell’Evangelii Nuntiandi. Parole che diventano ora la nostra preghiera, perché lo Spirito del Signore le possa portare a compimento in noi: «Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia del1e nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (n. 80). Amen!