Il Vescovo Giovanni Giudici ha presieduto, la sera di lunedì 25 maggio in Cattedrale, la solenne celebrazione per la Festa delle Sante Spine. Un’occasione speciale, nella quale la comunità cittadina e diocesana l’ha festeggiato per il suo 25esimo anniversario di episcopato. Ecco l’omelia pronunciata da mons. Giudici per la Festa delle Spine.
Ringraziamo il Signore che ha donato alla nostra Chiesa la devozione delle Sante Spine. La tradizione liturgica e spirituale della Chiesa pavese ha posto inoltre la festa dedicata alle Spine in un momento assai significativo dell’anno liturgico: il giorno dopo Pentecoste.
L’episodio evangelico cui fa riferimento la corona di spine posta sul capo del Salvatore ci trasmette un insegnamento prezioso, su cui oggi ci soffermiamo.
Facciamo attenzione alla sequenza degli avvenimenti della Passione: Gesù è stato condannato, e si trova nelle mani delle guardie del governatore Pilato, che presidiano il suo palazzo.
Il Signore è stato abbandonato da tutti, nessuno si è levato a testimoniare a suo favore, l’autorità civile ha ceduto ai bassi istinti della piazza. E’ in questo momento che le guardie danno sfogo alla loro rivalsa su chi sembra più debole di loro. Fanno una sorte di grottesca rappresentazione della umiliazione di un re e utilizzano uno strumento doloroso e crudele: la corona di spine.
Siamo così di fronte ad uno spettacolo drammatico e mirabile: Gesù Cristo, il Messia atteso e capace di cambiare la storia, manifesta qui la vulnerabilità di Dio. Ma mostrandosi così debole, il Signore mette in luce la pochezza dell’uomo, la sua crudeltà che non ha spiegazione se non in un animo meschino. Agiscono così uomini frustrati, a causa di una vita segnata da soprusi, irragionevolezza delle leggi di una società ingiusta, da cui la persona si difende con violenza, mentre soffre dell’incertezza che sperimenta.
Schiacciato, umiliato, ferito, Gesù tace. Perché? Secondo la narrazione di Giovanni, Gesù ha appena detto una parola che fa comprendere questo silenzio: «Se ho parlato male, dimostrami dove è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? Il Signore si rivolge così al servo del sacerdote che lo ha schiaffeggiato (Giovanni 18,23). La parola di Gesù pone l’uomo di fronte a se stesso, responsabile della sua libertà di scelta tra il bene e il male. E invita anche noi a riflettere: «Che cosa stai facendo? Liberati dalle tue frustrazioni, dalle tue paure, dal tuo passivo ripetere gesti e parole che sono secondo le vane tradizioni degli uomini!». Questo appello è la stupenda novità del Vangelo.
Ogni discepolo di Gesù, e il vescovo in primo luogo, è chiamato a riconoscere la sovrabbondante misericordia e la fedeltà di Dio che si rivela nella coronazione di Spine del nostro Maestro e Signore, del Figlio Unigenito del Padre. E annunciare il Vangelo comporta il rendere partecipe ogni uomo e ogni donna di questo messaggio, mediante la fede.
Venticinque anni fa, nel giorno della ordinazione episcopale, il Card. Martini che celebrava il rito, mi disse nell’omelia: “I Vescovi proclamano questa fede, la ripropongono, ne sono testimoni; sono quindi maestri della fede, chiamati ad annunciare Cristo e a far nascere e crescere la fede in Lui. Questa è l’eredità degli apostoli, questo è il dono dell’apostolato: metterci in comunione con la fede dei Dodici, testimoniarla, propagarla, trasmetterla, proclamare che è bello credere, che credere cambia la vita, la rinnova dall’interno, dà un orizzonte completamente nuovo di conoscenza. Dunque indicare, aiutare, sostenere il cammino di fede del popolo di Dio”. Di fronte a voi, in questo giorno che avete voluto segnare con il ricordo dei venticinque anni di episcopato, ho caro riflettere su questo compito che mi è stato affidato dal Signore per la decisione di Giovanni Paolo II e l’imposizione delle mani da parte del Cardinal Martini. Pur richiamando i limiti di una società che ha perso le sue radici spirituali ed ha imposto un umanesimo immanente ed autosufficiente, non ritengo ne mi sono mai mosso con l’idea che il cristianesimo debba esprimere una concezione antagonista che continua a proclamare le verità della fede e la loro fondazione metafisica e naturale; deve piuttosto collocarsi all’interno di una società pluralista come una delle possibili opzioni che le persone possono fare, e che io, ovviamente, ritengo importante per ogni uomo. Il perno del dibattito che il cristianesimo deve aprire sta nella compiutezza dell’umanità della persona, termine che fa riferimento a quella pienezza dell’essere, a quella ricchezza interiore, a quella pace con se stessi che i credenti riconoscono frutto dell’incontro con Dio, e che i non-credenti avvertono come l’esperienza di una sorta di autenticità umana.
Il presentare la fede, nell’ambito del sociale e del pubblico, come una delle opzioni da prendere in considerazione, evidentemente non deve togliere nulla alla significatività che essa ha per ogni persona umana e alla possibilità che a ciascun credente, come ricorda Pietro, sia data l’opportunità di rendere ragione della speranza che è in lui.
Per il suo presentare la fede come una scelta tra le altre, questa prospettiva può avere un senso sotto il profilo sociale e pubblico non certo sotto quello personale; un ordine politico, che accetti fino in fondo la finitezza e la debolezza della libertà umana, sa che questa produce pluralità di posizioni più che uniformità, possibilità di errori più che certezze assolute, scelte opinabili più che verità intoccabili.
Il punto decisivo di questa proposta sta, a mio parere, nella qualità della nostra formazione alla fede; la proposta di aderire al Vangelo non può essere una proposta debole e non può nemmeno essere fatta da soggetti che la vivano debolmente. Ho inteso richiamare sempre l’importanza di un di più di sapienza di vita, di spiritualità, di capacità di discernimento. Ho creduto, ho sognato e continuo a sognare la Chiesa di domani così connotata e, spero solo in questo modo, di continuare ad operare per essa.
Certo si tratta di portare in primo piano le domande di fondo: come avviene oggi la ricerca della verità? Quali cammini sta prendendo l’esperienza interiore e spirituale delle persone? Sono domande che riguardano tutta la Chiesa e che debbono essere tenute presenti quando si opera nelle parrocchie; esse riguardano anzitutto i membri attivi nella comunità. Si tratta di riconoscere che siamo in condizione di minoranza culturale, situazione ben nota a tante Chiese del sud del mondo ma che noi, in Italia, stiamo sperimentando solo in questi ultimi decenni. In una situazione del genere la comunità cristiana non può pensare e realizzare la sua pastorale come se ci trovassimo in una situazione di cristianità. Occorre proporsi mete di formazione dei battezzati, riconoscere la necessità di saper scegliere ciò che è centrale per la vita della comunità, e gli strumenti pastorali adatti alla condizione che stiamo vivendo.
Ho creduto che fosse dovere del Vescovo incoraggiare e sostenere la creazione di forme pastorali che saranno quelle di un futuro che noi non potremo vedere pienamente realizzato. Dobbiamo prendere atto che soprattutto i laici hanno un ruolo particolare, vanno aiutati a vivere con intensità la vita di fede, la forza della spiritualità, la particolare leadership ricevuta in dono, essi sono coloro cui è affidato il futuro della Chiesa.
Come pastore ho insistito e ancora dichiaro determinante per il futuro della nostra Chiesa una pastorale di insieme che può affrontare le sfide che una parrocchia non è sempre in grado di riconoscere e vincere; è solo lavorando insieme che si possono valorizzare, in un quadro di comunione, i doni di competenza e di testimonianza che sono presenti nella comunità diocesana.
Mi sono spesso domandato come ricostruire le ragioni di comportamenti di collaborazione tra presbiteri, di intesa tra comunità. Certo è che dobbiamo superare l’abbandono di questa fraternità e l’imporsi di una pastorale di preti o comunità solitarie. L’ideale a cui tendere resta la corresponsabilità che è il contrario dell’individualismo, anche quando è nascosto sotto un manto di attivismo o di spiritualità. Appartiene alla vita del pastore e al suo ministero dar vita ad un impegno di comunicazione evangelica che favorisca e guidi il raccogliersi dei credenti delle diverse comunità attorno alla Parola, e così che il loro vivere nella dinamica della diocesi, traduce il Vangelo in criterio di ispirazione condivisa e di scelta del loro agire.
In occasione della mia ordinazione episcopale il cardinale mi ricordava: «Se dovessimo temere che [servire come vescovo] sia un peso troppo grande per noi, che la responsabilità universale, pur se condivisa con il Papa e con gli altri Vescovi, rischia di schiacciarci, troveremo un conforto nelle parole di un grande vescovo, Agostino di Ippona». Nel suo commento al salmo 126,1 (“Se il Signore non avrà edificato la casa, invano faticano i suoi costruttori”) egli scrive: «I vescovi costruiscono e custodiscono la Chiesa (…). Ci affatichiamo custodendo, ma vana è la nostra fatica se non vi custodisce colui che vede i vostri pensieri. Egli vi custodisce quando vegliate vi custodisce quando dormite (…). Vi custodiamo dunque per compito del ministero sacro, ma vogliamo essere custoditi con voi. Siamo pastori per voi, ma sotto quel Pastore siamo con voi pecore. Siamo per voi da questo luogo come maestri, ma sotto quell’unico Maestro in questa scuola siamo con voi condiscepoli».
Ho invocato il Signore, maestro e pastore, per avere l’opportunità di indicare mete e percorsi spirituali alle famiglie, ai giovani, agli adulti e agli anziani, a chiunque mostra disponibilità ad ascoltare l’appello della sua interiorità. Per contro voglio dirvi che ho ricevuto molto da quanti ho incontrato in questi venticinque anni di episcopato; tante sono le persone che mi hanno aiutato con la loro fede e la loro umanità a comprendere meglio e a trovare gioioso riscontro alla promessa fatta da Gesù ai suoi discepoli: la luce di una vita buona risplende davanti agli uomini e, come ricorda Matteo 5,16, così avviene che ciascuno «renda gloria al Padre nostro che è nei cieli».
Monsignor Giovanni Giudici (Vescovo di Pavia)