Partecipi del sacerdozio regale di Cristo

i loro problemi. Presiedere l’eucaristia significa radunare la comunità fatta di fratelli e sorelle con i loro problemi, ascoltare la Parola che illumina e riscalda i cuori nella concretezza della quotidianità, accogliere l’Amore di Cristo nella fragilità della vita, lasciarci trasformare, donarci, ringraziare il Padre per l’Amore che ci dona e cominciare ad immetterlo nelle nostre relazioni, occupazioni, situazioni.  
 
 
2. Vorrei ora, alla luce delle considerazioni fin qui svolte, domandarmi: quali sono le condizioni per presiedere bene? 
Vi sono delle condizioni che riguardano la nostra vita personale, di credenti.
Anzitutto è indispensabile presiedere nella gioia. Non parlo della gioia effimera che si basa su buone esperienze o su sentimenti immediati. Parlo della gioia che nasce dalla fede. Essa nasce nel nostro cuore, pur se talvolta travagliato da fatiche, incertezze, oscurità, per il fatto che siamo stati chiamati, siamo stati inviati. Non è stata nostra la scelta di diventare preti. E dunque possiamo ripetere per la nostra vita ciò che Maria canta nel “Magnificat”, e al termine della nostra giornata è bello recitare, nella preghiera del vespero, quel canto come scritto per noi: “Egli ha guardato l’umile sua serva…”. Questo amore gratuito e originante è fondamento di tutta la vita: “ha innalzato gli umili..”.
 Il fatto che siamo stati chiamati ci dà la certezza che Cristo ci accompagna e ci fa partecipi dei suoi gesti di obbedienza al Padre. Per questo vivere la presidenza “in persona Cristi” ci invita ad una conversione costante al modello di vita proposto da Gesù. La comunione con Cristo genera la comunione fraterna con gli altri presbiteri e con i fratelli e le sorelle cha ci sono affidati; l’abbraccio di pace, vissuto in verità, diventa l’attuazione della comunione di ciascuno di noi con Cristo: “Oggi questa Parola si è compiuta per voi che ascoltate”. Vivere bene la presidenza dell’Eucaristia e della comunità ha origine nella persuasione del nostro appartenere al collegio dei presbiteri, in unione con il vescovo. 
Per presiedere l’eucaristia dobbiamo mettere in conto lo scomparire nostro; si tratta di un combattimento assiduo contro le nostre prevenzioni nei confronti delle persone; si tratta di mettere sotto critica le nostre presunzioni di sapere e di fare. Chi presiede nel nome e al posto di Cristo combatte le precomprensioni, guarda a ciascuno di coloro che gli sono affidati conoscendo per nome, facendo il possibile per comprendere i loro problemi, gioie, speranze, dolori… Nel suo presiedere, nel suo celebrare sa di immettere nel loro cuore l’Amore di Cristo 
In secondo luogo vi sono condizioni che riguardano gli atteggiamenti profondi che sono implicati nel nostro celebrare.
Un presiedere convinto e consapevole comporta che noi si sappia contemplare le specie eucaristiche; esse ci parlano del mondo che viene, ed è il ritorno di Gesù; esse ci parlano dello sguardo di fede da svolgere sul presente. E subito ci appare quali inutili fardelli possono essere presenti nella nostra vita: cose possedute o da possedere, desiderio di affermarci, sentimenti che legano le persone. Tenere nelle nostre mani le Specie eucaristiche, essere fratelli che testimoniano il Signore, ci chiede di essere esigenti con noi stessi, di lasciare ciò che non è in sintonia con la nostra condizione di chiamati e di inviati. E tutto questo ci ricorda quale intensità di ricerca spirituale deve essere perseguita da ciascuno di noi.
 Ancora, un celebrare l’eucaristia in mezzo al popolo di Dio, un pregare con coloro che ci sono affidati e per loro con il nostro breviario quotidiano, un dare ordine alla composita varietà della vita parrocchiale, significa quanto è importante e significativo presiedere stando con la gente.
 Ciò comporta la scelta di sviluppare la capacità di capire ciò che le persone soffrono e vivono, ciò di cui gioiscono. E attraverso questo fondamentale atteggiamento, esercitare il ruolo di guida ma per condurre la comunità sempre all’unità. Al suo interno e con il resto della comunità diocesana.
 In questa linea diventa spontaneo per chi presiede, valorizzare il ministero della riconciliazione, sia per vincere quell’indomabile passione alla fazione, al pregiudizio, alla divisione che alberga sempre, come un virus maligno, nelle nostre comunità, anche piccole. Ma poi, soprattutto, per avviare ciascuno di coloro che ci sono affidati, e in particolare i più attenti e sensibili, ad una vita spirituale più profonda.
 Tocca al presidente di una comunità cristiana impegnarsi per dare a ciascuno il suo, aprendo dinanzi alle persone percorsi vocazionali Mi ha molto colpito, rileggendo ciò che Angelini descrive della sua vocazione e di quella del vescovo Cazzani, ciò che egli narra. In condizioni di vita molto semplici e talvolta decisamente povere, ecco la cura personale dei parroci per questi ragazzetti – poi seminaristi, preti e vescovi – che venivano aiutati in tutti gli aspetti della loro vita, culturale, religiosa, sociale.
 
Da ultimo, voglio richiamare alcune certezze che già segnano il vostro modo di presiedere: 
§         puntare sulla pasqua domenicale: buona liturgia, omelia, gratuità da sviluppare.
§         coinvolgere gli anziani e gli ammalati attraverso i ministri straordinari dell’Eucaristia. Operiamo perché ogni parrocchia viva e mostri la centralità dei malati e degli anziani nella pastorale parrocchiale.
§         la partecipazione attiva e consapevole al cammino della Diocesi, con una più viva fraternità presbiterale. Siamo aiutati dal Consiglio Presbiterale e dalla prossima e vicina, Assemblea annuale del Clero.                                                                                        
                  N  Nella celebrazione che stiamo vivendo, il prefazio ci invita a rendere grazie come popolo di Dio, tutto sacerdotale, e richiama con chiarezza ed efficacia il ruolo di chi, al suo interno, è chiamato al ministero della presidenza.
Con l’unzione dello Spirito santo
hai costituito il tuo Figlio pontefice
della nuova ed eterna alleanza,
e hai voluto che il suo unico sacerdozio
fosse perpetuato nella Chiesa.
Egli non soltanto comunica il sacerdozio regale,
a tutto il popolo dei redenti,
ma con affetto di predilezione
sceglie alcuni tra i fratelli
e mediante l’imposizione delle mani
li fa partecipi del suo mistero di salvezza.
Tu vuoi che nel suo nome
Rinnovino il sacrificio redentore,
preparino ai tuoi figli la mensa pasquale,
e, servi premurosi del tuo popolo,
lo nutrano con la tua parola
e lo santifichino con i sacramenti.
Tu proponi loro come modello il Cristo,
perché, donando la vita per te e per i fratelli,
si sforzino di conformarsi all’immagine del tuo Figlio
e rendano testimonianza
di fedeltà e di amore generoso.
 
Questo è anche l’augurio pasquale che rivolgo a ciascuno di voi. Possa rimanere viva in noi la parola del Maestro: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve”, e la nostra missione di presidenti dell’eucaristia e di pastori del popolo di Dio sia ogni giorno connotata dall’immagine del sommo pastore che offre la sua vita per tutti. 
Come vi ho scritto, cogliamo questa occasione di riflessione sul nostro sacerdozio per festeggiare i cinquanta anni dall’ordinazione sacerdotale di Mons. Giuseppe Torchio, di don Giuseppe Rizzardi e anche della mia ordinazione sacerdotale.
Ricordiamo che in questo anno ricorre pure l il cinquantesimo dell’ordinazione sacerdotale di Mons. Giovanni Scanavino, per tanti anni partecipe della nostra vita diocesana, e che anche oggi è generoso aiuto alla nostra attività pastorale.
Ricordiamo inoltre i sessantanni dall’ordinazione sacerdotale di don Angelo Lomi. 
Sappia il Signore donare a ciascuno di loro e a me, pace e un sereno ministero.
 
 
 Mons. Giovanni Giudici
(vescovo di Pavia)
 
Ci raduna oggi la liturgia della consacrazione degli Oli, e ci consente di soffermarci, in meditazione e preghiera, prima che il servizio ai nostri fratelli ci concentri sui riti e sulle parole che animano la vita delle comunità cristiane a cui siamo mandati. La celebrazione liturgica del triduo pasquale ci fa rivivere il centro e il vertice del mistero di Cristo, il Figlio di Dio che si incarna, discende nella carne umana, nella sua realtà più profonda, fino alla morte, perché tutto sia riempito dalla gloria di Dio. 
La liturgia che siamo chiamati a celebrare non è il ricordo di un fatto passato che noi dobbiamo imitare, ma la “memoria” viva di un evento nel quale Dio opera in noi. Il mistero pasquale di Cristo si compie in noi, nella nostra storia: “Oggi, questa scrittura è compiuta per voi che l’ascoltate”. L’annuncio di Gesù è per noi, oggi. Noi siamo la carne di Cristo nel quale Dio discende per manifestare la sua gloria.
 “Oggi” ci è data la grazia di vivere la Pasqua. “Lo Spirito del Signore è su di me: per questo mi ha conferito l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare un anno di grazia del Signore”.
 Celebrare la Pasqua significa rivivere il centro dell’esperienza della fede cristiana: Gesù che porta a compimento la sua discesa nella povertà umana, fino alla morte: ma su di lui che discende, lo Spirito di Dio è presente e rimane con lui, per farlo risorgere, per innalzarlo dall’estrema umiltà alla gloria di Dio. Gesù discende per essere nella nostra umanità, con noi, perché i nostri occhi passino dalla tenebra alla luce, i nostri cuori dalla solitudine alla condivisione, dall’odio all’amore, dalla schiavitù alla libertà. Tutto ciò che è di Gesù, non è solo suo, è per tutti, per un popolo liberato, per un’umanità nuova.
 Nella Pasqua si compie il progetto di Dio, di fare del mondo e dell’umanità il luogo del suo Amore.
Gesù è per il mondo, per ogni uomo, non per fare un’altra umanità, ma per il compimento di quest’umanità. Gesù è immerso nel mondo perché il mondo viva: “per questo mi ha conferito l’unzione e mi ha mandato…”. “Oggi”, come avverte Lui stesso iniziando il suo ministero a Nazareth, Gesù è per il nostro mondo. 
Tutto questo avviene attraverso noi; e appunto a noi, suoi ministri, sacramento della sua presenza, la Liturgia riserva in modo particolare questa Liturgia del Giovedì Santo, perché riscopriamo il senso della nostra vita, del nostro ministero, oggi. Questa Liturgia così ricca di simboli: ci fa rivivere tutto il significato dell’essere partecipi di un popolo sacerdotale e ci ricorda che Cristo “con affetto di predilezione ci ha scelto tra i fratelli per farci partecipi del suo ministero di salvezza”.
 Oggi dunque siamo invitati a rivivere il fascino del nostro incontro personale con Lui, del suo sguardo d’amore per noi: lui conosce tutte le nostre debolezze, le nostre fragilità. Lui ci conduce fino in fondo alla nostra umanità, ci fa compiere il cammino della nostra libertà da tutto ciò che ci chiude, per farci gustare la bellezza della vita nuova. Non sono le nostre doti, le nostre abilità che contano, quanto il fare spazio a lui, perché in noi risplenda la sua luce. 
“Per questo mi ha mandato…”: noi siamo dei mandati da lui, non una volta per sempre, ma tutta la nostra vita, ogni attimo di essa è “essere mandati” da lui. Quanto più siamo trasparenti di lui, tanto più la nostra vita diventa “missione”. È il paradosso della nostra vita: quanto più, scompare il nostro “vecchio io”, diventa piccolo, tanto più vive in noi Cristo, il nostro “nuovo io”. Quanto più siamo fragili e tanto più vive in noi la sua forza. 
Questo rito degli Oli ci riconduce all’origine del nostro ministero: ciascuno di noi, personalmente, è chiamato di nuovo, da lui, per essere sacramento della sua presenza. È il giorno nel quale egli ha svelato fino in fondo la propria vita della Trinità ai suoi discepoli, ha affidato loro il “comandamento nuovo”: “Vi dono un comandamento nuovo, che vi amiate come io ho amato voi”, si è spogliato di ogni segno di grandezza, si è cinto i fianchi con il grembiule e ha lavato i piedi ai suoi discepoli, poi ha donato la sua vita fino alla fine, spezzando il pane e dicendo: “Questo è il mio corpo, prendete, mangiate…fate questo in memoria di me…”.
 Il nostro ministero è l’ “oggi” dell’Amore di Cristo. Oggi siamo chiamati ad ascoltare la sua voce nel profondo del nostro cuore: “Amatevi come io ho amato voi…Vi do un comandamento nuovo…Prendete, mangiate…”. E di qui il comando: “Fate questo in memoria di me…” Non si può trattenere per sé un Amore così grande: ma per donare Amore, occorre scomparire. Il dono della vita è il ministero di Cristo che si attua oggi, in noi.  
Lo scopo della nostra vita, segno di Cristo, è di essere strumento per la trasformazione del mondo, l’umanità nuova. Così il Signore ha affermato, e per questo “gli occhi di tutti erano fissi su di lui”. E in altro contesto, ma in continuità con la sua promessa di un lieto annuncio, ci ha coinvolti in quanto sui discepoli: “Voi siete il sale della terra…Voi siete la luce del mondo…” Gesù ha impegnato tutto se stesso per noi: il senso della nostra vita, del nostro ministero, comincia di qui, dal lasciar spazio a lui. Se lasciamo spazio a lui siamo luce, sale… Dobbiamo attirare, dobbiamo illuminare: solo lasciando spazio a lui assume il suo significato il nostro ministero che è servizio, il nostro ufficio di “presidenza” che è sentirsi “ultimi”, “poveri”.
 
 1. Il ministero della Presidenza che ciascuno di noi oggi vive nella sua comunità è la via attraverso la quale arriva al mondo l’Amore del Padre: intendo affrontare in questo anno il tema della presidenza del presbitero nella liturgia e nella comunità cristiana quasi in dialettica con la lettera pastorale che ho indirizzato alla Diocesi e che tratta del laico e della sua missione nella Chiesa e nella società.
 La presidenza del rito eucaristico infatti è la nostra collaborazione all’inverarsi della Pasqua nel cuore delle persone e nella vita del mondo, e ad esso siamo stati chiamati con l’imposizione delle mani. E’ questa appartenenza a Cristo, prodotta in noi dall’Ordinazione sacerdotale, che qualifica la nostra persona. Lo Spirito che ci è dato in quel giorno ci consente di cercare l’unità dei nostri sentimenti, costituisce la nostra identità più profonda.
 Presiedere l’eucaristia non è tanto compiere un rito, quanto piuttosto farsi memoria viva dell’Amore di Cristo che attraverso noi vivifica la nostra comunità: la carne e il sangue di Cristo si dona attraverso la nostra vita che si mette a disposizione dei fratelli e delle sorelle nel suo nome, che ha il coraggio di spezzarsi mettendosi al servizio là dove il collegio dei presbiteri con il vescovo avverte la necessità, che si inserisce nella vita della comunità a noi affidata per la vita dei nostri fratelli. 
Proprio perché conformati a Cristo, la nostra condizione di presbiteri diventa segno e impegno della presidenza dell’intera comunità a noi affidata. Solo lasciando che la nostra fragile vita sia amata da Cristo possiamo in nome suo “presiedere” l’eucaristia e nel suo nome dire: “Questo è il mio corpo, il mio sangue per voi e per tutti…prendete, mangiate…”, perché la debolezza di ciascuno di noi suoi discepoli diventi tuttavia servizio fatto ai fratelli perché il mondo viva la vita di Dio. 
La grazia dello Spirito ci consente di condividere la Sua misericordia. Vorremmo fosse applicabile a ciascuno di noi la descrizione che Paolo offre del suo ministero: …siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. (1 Tessalonicesi 2,7-8) Si tratta evidentemente di una ispirazione interiore che nasce dall’opera dello Spirito in noi. Ma vi deve essere pure il nostro acconsentire ad essa. Nella misura in cui siamo accompagnati dallo Spirito presente in noi per l’imposizione delle mani del vescovo, riconosciamo che quella posizione in Diocesi che ci è stata chiesta, e quindi le persone che ci sono state affidate, sono da considerare il luogo in cui possiamo vivere il mandato del Signore per noi.
 In particolare poi è significativo riflettere sul fatto che siamo chiamati a presiedere una comunità di fratelli e sorelle, con