Durante la Festa dei Giornalisti di venerdì 24 gennaio Massimo Esposti, ex caporedattore centrale de Il Sole 24 Ore, verrà insignito del premio alla memoria di mons. Bordoni.
Esposti, da dove è venuta la decisione di fare il giornalista?
“Ho deciso per un fatto stranissimo. Facevo ancora il liceo quando a Pavia hanno aperto Radio Pavia International con Nando Azzolini direttore. Due miei amici espertissimi di calcio fino al dettaglio furono chiamati per una rubrica la domenica sera, ed erano seguitissimi. Io ero appassionato di pallacanestro e, sentendo questa trasmissione, mi accorgo che non parlavano di basket. Come succede nella vita, di impulso prendo il telefono e chiamo Radio Pavia e chiedo di uno di questi due dicendogli di informarsi se avevano bisogno di un esperto di pallacanestro. Andai ovviamente gratis. L’esperienza è durata circa un anno circa e devo dire che mi sono trovato molto bene”.
E poi?
“Da lì mi ha chiamato un’altra figura storica del giornalismo pavese, Franz Prato, che era responsabile della redazione di Pavia del Giorno. Il posto era precario, quasi abusivo, ma era “grasso che colava” perché c’era tantissimo da imparare. Lì ho fatto davvero di tutto. Mi ricordo di quella volta in cui organizzammo un convegno de Il Giorno a Pavia con il direttore e la Camera di Commercio. Si doveva preparare preparare uno speciale su Pavia: curai il servizio sui pendolari. Da allora devo dire che non è cambiato niente, potremmo riprendere quella inchiesta e pubblicarla tale e quale!”
Che cosa invece è cambiato nel corso degli anni nel mondo del giornalismo?
“Il ruolo del giornalista paradossalmente è molto conservatore anche se dovrebbe comportarsi in modo diametralmente opposto. Il bello dell’aver cominciato con la macchina da scrivere e la tipografia col piombo ha lasciato in molti di noi questo entusiasmo per le nuove tecnologie. Non credo sia una questione generazionale, ma mentale. Nel nostro lavoro l’avvento delle tecnologie ha rappresentato qualcosa di straordinario perché c’è la possibilità di elevare all’ennesima potenza la capacità di ricerca. Ma questo non deve far dimenticare i sani principi del giornalismo come quello della verifica perché oggi c’è questa rincorsa a essere i primi. Se lo fa un cittadino normale e prende una cantonata non c’è problema. Ma se lo fa un giornalista è chiaro che può creare particolari tensioni o problemi. Il nostro ruolo di mediatori resta e anzi diventa sempre più delicato”
Quindi i giornalisti servono ancora?
“Diciamo che sicuramente ognuno ha il diritto di esprimersi e comunicare, ma avere professionisti seri del settore è fondamentale, persone di cui ti puoi fidare. E non a caso se si va a vedere quali siano i siti più letti sono quelli che hanno una caratura di affidabilità. Tornando alle nuove tecnologie devo dire che sono una cosa entusiasmante a partire dallo smartphone fino a arrivare ai tablet. È chiaro che si va verso un mondo di completa interconnessione: il giornalista deve ragionare con una mentalità multimediale sapendo che non tutto può andare bene per tutti i canali indistintamente. C’è la carta stampata, ci sono i blog, ci sono i social media… lo stesso giornalista si deve fare carico di creare reti parallele informative per aumentare la propria capacità di comunicazione. Chiunque può sempre darti qualcosa e arricchirti”.
Crisi e giornalismo: due parole connesse che non sono risorsa l’una per l’altra. Uscirà mai dalla crisi il giornalismo italiano?
Il giornalismo italiano è particolare perché anche l’editoria lo è. Abbiamo avuto editori che volevano un giornale non per fare business ma per avere un house organ o una testata di pressione. La crisi invece ha accentuato gli aspetti di sostenibilità economica. La crisi, però, non è crisi di lettura perché la gente legge e continua a informarsi, ma diminuiscono proprio le copie vendute. Quindi, direi certamente che non si può prescindere dall’on line, ma in parallelo esiste un rallentamento mostruoso della pubblicità che toglie linfa vitale a giornali, radio e televisioni.
Crede davvero che Pavia sia rimasta uguale a quella che lei descrisse in quel servizio sui pendolari?
“Non è cambiato il fatto di ritenersi una città un po’ staccata dal resto: università, policlinico, enti… c’è una parte della città che è garantita, con una vita garantita. C’è, poi, un’altra parte di città che adesso è franata e questo sta imponendo una trasformazione. Lo si vede dalle persone, dal loro modo di porsi e dai negozi che chiudono. Ecco io vedo che quella prima parte di città forse non sta capendo la trasformazione e la situazione della seconda. Serve uno scatto ad esempio sui temi del turismo o anche sulle questioni valoriali come quella delle slot. Sono stato uno dei primi a parlarne e certo non è un vanto, ma non si può continuare di questo passo. E poi l’Università che dovrebbe fungere davvero da Silicon Valley culturale per la città.
Che cosa invece è cambiato?
L’atteggiamento delle persone che in un momento come questo dovrebbe essere di solidarietà e, invece, c’è una battaglia di arretramento anche in termini di civiltà. Penso alla pulizia della città. Servirebbe davvero più amor proprio: basterebbe così poco…”
Elia Belli