La lettura di Sant’Agostino, che ha accompagnato la vita di monsignor Giovanni Volta, ci viene proposta postuma nel libro «Timore e speranza. La redenzione dalla morte in Agostino».
Vescovo di Pavia dal 1986 al 2003, assistente spirituale dell’Università Cattolica per sedici anni, Volta è morto il 4 febbraio scorso, mentre l’ultima sua opera era in uscita nelle edizioni Città Nuova. Il suo ricordo è stato proposto da Paola Paganuzzi con la presentazione del testo a cura di mons. Giacomo Canobbio, nella libreria dell’Università Cattolica in via Trieste. Tema inquietante fin dall’inizio della storia umana (a conferma, il relatore ha richiamato la ricerca dell’immortalità nell’epopea di Gilgamesh e la filosofia di Epicuro, che invitava a far morire il desiderio) la morte viene rimossa dall’uomo del nostro tempo, teso a rendersi «costruttore di se stesso». Nel cristianesimo, una tradizione antica ha insegnato a prepararsi alla morte «per viverla e non subirla».
Per Sartre la morte rende la vita insensata. A molti oggi appare come una fine ineluttabile, «un moloch che tutto inghiotte». Ecco allora il richiamo a Sant’Agostino, che resta «uno dei maestri della cultura occidentale, ponte tra la cultura antica e il cristianesimo, indagatore profondissimo della psiche umana, pastore preoccupato di offrire ai fedeli elementi per rispondere agli interrogativi fondamentali dell’esistenza, difensore della dottrina cristiana».
Le sue opere non hanno un carattere sistematico, mons. Volta ha colto nell’insieme degli scritti quanto aveva attinenza con il tema, per riproporlo in forma organica. Il libro, osserva il delegato vescovile alla Cultura, ha due registri, tra vissuto e teologia. Fa rilevare la profonda trasformazione avvenuta in Agostino con l’adesione alla fede cristiana, tra l’angoscia che gli procura la morte dell’amico e la sofferenza alla luce della vicinanza a Dio provata alla morte della madre.
Da credente e da pastore colloca la sua riflessione tra due poli: Adamo che è all’origine della morte e Cristo che l’ha sconfitta. La ragione del morire, afferma, non può essere Dio, che è fonte della vita e meta del nostro desiderio. Nel Paradiso terrestre – afferma – Adamo sarebbe stato salvato dalla morte per la sua vicinanza a Dio, ma con il peccato la sua mortalità nativa ha preso il sopravvento: la mortalità appartiene agli umani, ma l’anima unita a Dio può far vivere il corpo. Nella morte Gesù Cristo ha voluto condividere in tutto la fragilità della condizione umana, per «indicare come nella sofferenza e nella morte si possa vivere. Non è rimasto nella morte e la sua vittoria prefigura il destino degli umani, innalza l’umanità alla pienezza della vita».
La morte, osserva ancora mons. Canobbio, «è una prova della fede, che ci prepara alla visione di come saremo da risorti», in una bellezza raggiunta nella pienezza della vita. In questa luce l’esistenza cristiana è «una graduale configurazione a Cristo nella fede».
Il libro ha diversi pregi, secondo la valutazione proposta dal relatore: nasce da una conoscenza profonda delle opere di Sant’Agostino ed è il frutto di una sistematizzazione del suo pensiero, a servizio dei lettori. Si apprezza per la lucidità espositiva e per l’offerta di testi (anche in latino) che «non lascia nulla da cercare». Propone un’abbondante bibliografia, che dagli anni ’40 arriva fino ad oggi.
È un libro che «dà da pensare», trattando un tema che ci riguarda nel profondo: «Res nostra agitur: la morte è la vera questione della vita».
Elisabetta Nicoli