Seconda domenica di Quaresima
S. Maria del Carmine – Pavia – 8 marzo 2020
Cari confratelli nel sacerdozio,
cari fedeli che vi unite dalle vostre case a questa celebrazione,
Siamo raccolti in questa splendida basilica di S. Maria del Carmine, cara a tanti di voi, nella seconda domenica di Quaresima, che vede ancora le nostre comunità prive dell’Eucaristia celebrata con il popolo di Dio: idealmente qui è rappresentata tutta la Diocesi, dai quattro Vicari foranei che concelebrano con me e con il Vicario generale.
Domenica scorsa, abbiamo iniziato il cammino della Quaresima nel deserto, dove Gesù si ritira in preghiera e in digiuno, per quaranta giorni e dove affronta vittoriosamente le tentazioni del Maligno. La Quaresima di quest’anno sembra proprio un cammino nel deserto: le chiese vuote, «le Messe senza fedeli e i fedeli senza Messa», come si esprimeva in modo efficace il nostro Metropolita, l’arcivescovo di Milano Mario Delpini. È una situazione eccezionale e grave, dovuta, come ben sappiamo, all’epidemia in corso, che come Chiesa viviamo con sofferenza e con il desiderio di farci carico del bene di tutti, evitando occasioni di riunioni, anche liturgiche, che favoriscano la diffusione del virus.
Anche se le chiese restano aperte e siamo invitati a entrare per momenti personali di preghiera, appaiono in certe ore desolate, e si stringe il cuore di noi pastori e di voi fedeli: sì, carissimi fratelli e sorelle, è un tempo di prova per tutti, un cammino nel deserto. E come sappiamo dalla Scrittura, il deserto è un luogo ambivalente: nel deserto Dio chiama il suo popolo, come lo sposo che vuole parlare nel silenzio al cuore della sua sposa, allo stesso tempo il deserto è luogo inospitale, di fatica, di solitudine, di tentazione.
Tutto ciò è vero anche ora: in questi giorni molti di noi sono obbligati a ridurre le attività e magari ci ritroviamo a passare più tempo in casa, siamo invitati a prendere alcune precauzioni e a ridurre le frequentazioni e le relazioni, siamo talvolta in ansia per la salute nostra o dei nostri cari, familiari e amici, soprattutto gli anziani, le persone più fragili e a rischio.
Possono essere giorni sopportati, pesanti, a volte amari o vuoti, oppure possono diventare giorni in cui dare più tempo alla preghiera, all’ascolto della Parola di Dio, alla lettura di testi belli che fanno respirare il cuore, giorni in cui dedicare cura alle relazioni quotidiane, innanzitutto in famiglia, sentirci di nuovo parte di una comunità più ampia, civile ed ecclesiale, compiere piccoli gesti di vicinanza e di servizio (una telefonata, una commissione per una persona anziana o sola vicina a noi, un saluto non formale, anche se dobbiamo rinunciare all’abbraccio o alla stretta di mano). Giorni in cui riscoprire un grande debito di gratitudine per gli operatori sanitari impegnati, in modo ammirevole, nel servire la salute delle persone: c’è un’umanità bella che si svela in queste ore nei nostri ospedali e centri di cura!
Come sempre, è in gioco la nostra libertà, sta a noi vivere il passaggio nel deserto come tempo che nasconde una fecondità, attraversando la tentazione dell’isolamento, del ripiegamento egoistico, della tristezza sterile e della paura che offusca lo sguardo, un tempo che ci può far maturare nella nostra consistenza umana e nella fede, nel rapporto con il Signore, presenza che ci attende e ci chiama dentro la realtà, dentro le circostanze quotidiane.
Il cammino quaresimale ha una mèta chiara, come canta la Chiesa in un inno di questo tempo: «Dal paese d’Egitto ci hai tratti, e cammini con noi nel deserto, per condurci alla santa montagna sulla quale si innalza la Croce». Come Israele, popolo scelto e liberato da Dio, noi siamo guidati e accompagnati dal Signore verso la santa montagna sulla quale s’innalza la Croce: il colle del Calvario, il luogo della morte in croce di Gesù. La Quaresima è tutta protesa ai giorni santi del Triduo Pasquale del Signore crocifisso, sepolto e risuscitato. Camminiamo sapendo che all’orizzonte c’è la croce di Cristo, segno di un amore inimmaginabile, che condivide pienamente il dramma della sofferenza e della morte, il dramma della nostra umanità vulnerabile, un amore che nell’oscurità di un sepolcro si manifesta più potente della morte.
Questo è il contenuto essenziale del Vangelo, dell’annuncio buono e bello che da duemila anni si trasmette di generazione in generazione, attraverso l’umanità trasfigurata e lieta dei testimoni di Cristo, dei santi, noti e ignoti, che Dio continua a suscitare e a porre sulla nostra strada, «i santi della porta accanto», come li chiama Papa Francesco. Ce l’ha ricordato San Paolo nella seconda lettura di oggi, scrivendo così al discepolo Timòteo: «Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo» (2Tm 1,10). Attraverso il Vangelo, attestato e reso vivo nel volto dei suoi testimoni, si manifesta una presenza più forte di ogni morte, e risplende la vita, la vita vera e piena, che germoglia e cresce anche nelle prove, nelle fatiche e nelle contraddizioni dell’umana esistenza.
Se le nostre giornate sono dominate e quasi investite dallo splendore del Vangelo, dalla luce di una presenza irriducibile alla morte, allora possiamo attraversare ogni valle oscura senza perdere la speranza, e diventiamo presenze umane capaci di una tenace positività!
Nel cammino della Quaresima, prima della santa montagna del Calvario, in questa domenica sostiamo su un altro monte, senza nome, anche se la tradizione l’ha identificato con il monte Tabor nella pianura di Izreel in Galilea, il monte della trasfigurazione del Signore: «Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,1-2). L’evangelista cerca di evocare e di descrivere qualcosa d’indicibile, di cui sono testimoni stupiti e intimoriti i tre discepoli scelti da Gesù: per qualche istante tutta la persona del loro Maestro cambia aspetto, è una presenza che risplende di luce e di gloria. La gloria divina nascosta si manifesta e irradia dal volto di Cristo: è come un anticipo di quella vita gloriosa e piena che si sprigionerà dal corpo del Signore risorto.
Nel racconto dei vangeli, poco prima di questa scena, Gesù ha rivelato ai Dodici il destino che lo attende a Gerusalemme: egli sarà riprovato e condannato dalle autorità d’Israele, sarà messo a morte e risorgerà. Un annuncio che i suoi non comprendono, e che suscita scandalo e resistenza in Pietro: il Messia, da lui riconosciuto, non può avere un tale destino! Pietro vorrebbe un Messia senza la croce, un Messia che trionfa e che vince.
Ecco, la Trasfigurazione diviene una sorta di annuncio rivolto ai discepoli, di allora e di oggi, è il segno di una potenza di vita e di gloria, già presente nel corpo di Cristo, una potenza che si dischiuderà e si rivelerà a tutti attraverso il mistero della sua Pasqua di morte e di risurrezione.
Ritorna, carissimi amici, la centralità della croce, come passaggio ineludibile, come segno di una vita donata e consumata nell’amore. Questa è la via della vita vera, della gloria ben diversa dalla gloria del mondo: «Per crucem ad gloriam, per crucem ad lucem».
Così siamo chiamati a vivere l’esperienza di questi giorni, che per alcune famiglie è esperienza di lutto e di sofferenza per la morte dei loro cari, per molti è tempo di preoccupazione e di cura, per tutti è un momento gravido di vita, come il travaglio di una donna madre.
La luce del Tabor, annuncio della luce del Risorto, rinvigorisca la nostra speranza, l’attesa certa di un destino di vita, oltre la morte, e la trasfigurazione di Cristo sul monte sia il segno di quella trasfigurazione che accade già ora, come inizio dell’eterno, nella nostra esistenza, nella nostra carne. La condizione è accogliere le parole del Padre, rivolte ai tre discepoli: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5).
Ascoltiamo Lui, il Signore, guardiamo a Lui, lasciamoci trasfigurare dal suo amore! Amen